TRIBUNALE DI NOLA 
 
 
                           Sezione GIP/GUP 
 
    Ordinanza di sospensione del procedimento  e  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale (articoli 134 della Costituzione, 23 e
seguenti, legge 11 marzo 1953, n. 87). 
    Il giudice per le indagini preliminari  del  Tribunale  di  Nola,
dott. Raffaele Muzzica, all'esito della camera di  consiglio  del  20
giugno 2022, ha pronunciato la seguente  ordinanza  nel  procedimento
penale a carico di F. A., nato a (...) il (...), ivi  residente  alla
via (...) n. (...) Libero - non comparso difeso di fiducia  dall'avv.
Giovanni Maria Abate, presente indagato per il reato di cui  all'art.
614 del codice penale, commesso in data (...) in (...) nei  confronti
di: N. E., nato a (...)  il  (...),  non  comparso  difeso  dall'avv.
Angelo Pignatelli, presente tramite il delegato, avv. Vincenzo  Miele
per sollevare questione di legittimita' costituzionale degli articoli
409, commi 4 e 5 e 411, comma 1-bis del codice  di  procedura  penale
nella parte in cui non prevedono  che  il  giudice  per  le  indagini
preliminari, a seguito di richiesta  di  archiviazione  avanzata  dal
pubblico ministero per infondatezza della notizia  di  reato,  previa
fissazione dell'udienza  camerale,  sentite  le  parti  e  stante  la
mancata opposizione dell'indagato,  possa  pronunciare  ordinanza  di
archiviazione per particolare  tenuita'  del  fatto,  per  violazione
degli articoli  3,  27,  commi  1  e  3,  76,  101,  111,  117  della
Costituzione in riferimento all'art. 6 CEDU. 
1. Svolgimento del procedimento. 
    Nel procedimento  in  epigrafe  indicato  il  pubblico  ministero
avanzava  richiesta  di  archiviazione  in  data  30   agosto   2019,
notificata  alla  persona  offesa  in  data  31  gennaio  2022,   per
infondatezza della notizia di reato. 
    A seguito  della  richiesta  di  archiviazione  lo  scrivente  in
funzione di giudice  per  le  indagini  preliminari  fissava  udienza
camerale ai sensi dell'art. 409, comma  2  del  codice  di  procedura
penale. 
    In quella udienza - non  comparso  il  pubblico  ministero  -  il
giudice verificava la regolarita' del contraddittorio ed invitava  le
parti a rassegnare le loro conclusioni, sollecitando espressamente il
contraddittorio circa la possibilita'  di  emettere  un'ordinanza  di
archiviazione per particolare tenuita' del fatto. Sul punto, entrambe
le parti, rappresentate dai loro difensori, non si opponevano. 
    All'esito della discussione, prima  di  pronunciarsi  nel  merito
della richiesta di archiviazione, questo  giudice  ritiene  di  dover
sollevare d'ufficio la questione di legittimita'  costituzionale  che
di seguito si esporra', e dunque  di  sospendere  il  procedimento  e
trasmettere  gli  atti  alla  Corte   costituzionale   per   la   sua
risoluzione. 
2. La rilevanza della questione. 
2.1. Il fatto storico. 
    Dagli atti contenuti nel  fascicolo  del  pubblico  ministero  il
fatto sottoposto al vaglio di questo giudice deve essere  ricostruito
nei termini che seguono. 
    Nella denuncia querela versata nel fascicolo, la  persona  offesa
riferiva che alle ore (...) del (...) si era allontanata da casa  per
circa quindici minuti, al fine di svolgere una commissione. 
    Al suo ritorno il denunciante notava all'interno  della  stradina
privata,  nella  parte  di  sua  esclusiva  proprieta',   debitamente
indicata da  cartellonistica  e  da  una  sbarra  per  l'accesso,  la
presenza di un individuo intento a prendere delle misure con un metro
pieghevole. Al che la  persona  offesa  si  avvicinava  al  soggetto,
chiedendogli chi fosse e cosa stesse facendo, ottenendo dallo stesso,
che gli intimava di allontanarsi e di non  infastidirlo,  una  brusca
risposta. 
    La persona  offesa,  dunque,  si  qualificava  come  proprietario
dell'area, rappresentando invano all'ignoto soggetto  che  questi  si
era introdotto nella sua proprieta' senza preventiva autorizzazione. 
    Per tali motivi  il  denunciante  richiedeva  l'intervento  delle
Forze dell'ordine che, sopraggiunte  nell'immediatezza,  provvedevano
ad identificare il soggetto,  ancora  presente  sul  posto,  come  il
geometra F. A., deferendolo all'Autorita' giudiziaria  per  il  reato
indicato in epigrafe. 
2.2. La qualificazione giuridica del fatto ai sensi della fattispecie
di cui all'art. 614 del codice penale. 
    Ritiene questo giudice che il fatto, cosi' come ricostruito,  sia
pienamente  sussumibile  nella  fattispecie  incriminatrice  di   cui
all'art. 614 del codice penale ipotizzata dall'ufficio  del  pubblico
ministero. 
    Quanto alla fattispecie oggettiva del delitto in  questione,  non
vi e' dubbio che l'indagato si sia introdotto, contro la volonta' del
titolare, in una pertinenza dell'abitazione dello stesso, debitamente
protetta da apposite misure di  sicurezza  («Integra  il  delitto  di
violazione di domicilio la condotta del soggetto  che  si  introduca,
contro la volonta' di chi ha il diritto di escluderlo, in  un  locale
di pertinenza  di  un'abitazione,  regolarmente  chiuso  a  chiave  e
saltuariamente  visitato  e  sorvegliato   da   chi   ne   abbia   la
disponibilita', in quanto l'attualita' dell'uso, cui e' collegato  il
diritto alla tutela della liberta' individuale  non  implica  la  sua
continuita' e, pertanto, non viene meno in ragione dell'assenza, piu'
o meno prolungata nel tempo, dell'avente diritto.» (Sez. 5,  sentenza
n. 29934 del 16 giugno 2006 ud. (dep. 12 settembre 2006) rv. 235151 -
01); «Il giardino adiacente ad una  casa  di  abitazione  costituisce
appartenenza della casa medesima. (fattispecie in tema di  violazione
di domicilio)». (v. 118855, anno 1971). (Sez. 5, sentenza n. 7700 del
25 maggio 1973 ud. (dep. 5 novembre 1973) rv. 125375 - 01). 
    Sussiste, infine, anche una concreta  offesa  al  bene  giuridico
tutelato dalla fattispecie incriminatrice in questione, atteso che la
condotta del F. ha compresso lo ius excludendi del titolare del bene,
che si determinava a richiedere l'intervento delle Forze dell'ordine. 
    Quanto alla fattispecie soggettiva, sussiste il  dolo  richiesto,
giacche'  il  F.  non  soltanto  era  pienamente  consapevole   della
sussistenza di un titolo di godimento  altrui  (reso  evidente  nella
cartellonistica  recante  «strada  privata»,  nonche'  nella   sbarra
all'accesso della pertinenza, e  confermato  altresi'  dal  contenuto
della  memoria   difensiva   versata   agli   atti)   ma   ha   anche
volontariamente  agito,  non  desistendo   dalla   permanenza   nella
proprieta' del N. nonostante  quest'ultimo  gli  avesse  intimato  di
allontanarsi,  qualunque  fosse  lo  scopo  della  sua  azione  (cfr.
«L'elemento psicologico del reato di  cui  all'art.  614  del  codice
penale consiste nel dolo generico, cioe' nella coscienza  e  volonta'
dell'agente di introdursi nell'altrui abitazione contro  la  volonta'
di colui  che  e'  titolare  del  diritto  di  esclusione  restandone
estraneo, e quindi irrilevante, il fine prepostosi dall'agente (nella
specie: intendimento di parlare col coniuge separato e con i figli).»
(Sez. 5, sentenza n. 6401 dell'8 ottobre 1987  ud.  (dep.  27  maggio
1988) rv. 178475 - 01). 
    Dagli atti utilizzabili  ai  fini  della  decisione  non  emerge,
infine, la sussistenza di cause di giustificazione o di cause di  non
punibilita'  lato  sensu  intese   e,   dunque,   la   richiesta   di
archiviazione per infondatezza della notizia di reato non puo' essere
accolta. 
2.3. La sussistenza, in concreto, dei presupposti  della  particolare
tenuita' dell'offesa e della non abitualita' del comportamento  (art.
131-bis del codice penale). 
    Nondimeno, ritiene questo giudice  che  sussistano  nel  caso  di
specie gli indici-criteri della particolare  tenuita'  dell'offesa  e
della non abitualita' del comportamento richiesti  dall'art.  131-bis
del codice penale ai fini  del  riconoscimento  della  causa  di  non
punibilita' della particolare tenuita' del fatto ivi prevista. 
    Quanto al primo indice, di natura  oggettiva,  della  particolare
tenuita'  dell'offesa,  va  infatti  rilevato  che  la   compressione
dell'inviolabilita' del  domicilio,  bene  giuridico  tutelato  dalla
fattispecie incriminatrice di cui all'art. 614 del codice penale, pur
sussistente secondo quanto si e' rilevato  supra,  deve  al  contempo
considerarsi particolarmente esigua nel caso di specie:  infatti,  si
e' verificata per un lasso temporale  pressappoco  quantificabile  in
mezz'ora (cfr. Cassazione Sez.  3,  n.  47039  dell'8  ottobre  2015,
pubblico ministero in proc. (...), non mass., secondo  cui  il  reato
permanente, non essendo riconducibile  nell'alveo  del  comportamento
abituale ostativo al riconoscimento del beneficio ex art. 131-bis del
codice penale, puo' essere oggetto  di  valutazione  con  riferimento
all'«indice-criterio» della particolare tenuita' dell'offesa, la  cui
sussistenza sara' tanto piu'  difficilmente  rilevabile  quando  piu'
tardi sara' cessata la permanenza). 
    Analogamente,  non   appaiono   particolarmente   allarmanti   le
modalita'  della  condotta,  e  cio'  alla  luce  del  fatto  che  la
violazione di domicilio e' stata perpetrata  dal  F.  in  assenza  di
violenza o minaccia alla persona e, stando a quanto consta  a  questo
giudice, non per fini ulteriormente illeciti. 
    Non sussiste, inoltre, neppure alcuno degli indici presuntivi  di
cui all'art. 131-bis, comma 2 del codice penale, idonei ad  escludere
la qualificazione dell'offesa  in  termini  di  particolare  tenuita'
(motivi abietti o futili, crudelta' o sevizie, minorata difesa  della
vittima, eventi di morte o lesioni gravissime). 
    Sotto tale primo profilo deve ritenersi, in definitiva, che si e'
trattato di una violazione di domicilio di breve durata e  di  scarsa
entita', e che dunque si e' risolta in un'offesa decisamente lieve ai
beni giuridici tutelati dalla fattispecie criminosa in questione. 
    Quanto  al  secondo  indice,  di  natura  soggettiva,  della  non
abitualita' del comportamento, non risulta agli atti  che  il  (...),
incensurato e geometra di professione, abbia gia' in passato commesso
condotte della medesima  indole,  o  comunque  a  questa  analoghe  o
assimilabili, ne' tantomeno abbia gia' altrimenti  beneficiato  della
causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale. 
    Ne' osta alla qualificazione in termini di  non  abitualita'  del
comportamento la disposizione di cui all'art. 131-bis, comma  3,  del
codice penale, secondo cui «Il comportamento e' abituale ... nel caso
in cui si tratti di reati che abbiano ad  oggetto  condotte  plurime,
abituali o reiterate». Ed invero, nel caso di specie si e' di  fronte
ad un reato  realizzato  mediante  una  condotta  unitaria  da  parte
dell'indagato. 
    In definitiva sussistono, nel caso di specie, tutti i presupposti
normativi che  consentirebbero  l'applicazione  della  causa  di  non
punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice  penale,  giacche'  il
delitto di cui all'art. 614 del codice  penale  e'  punito  con  pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque  anni,  l'offesa  e'  di
particolare  tenuita'  e  il  comportamento  dell'indagato   non   e'
abituale. 
2.4. La preclusione all'applicazione della causa di  non  punibilita'
della particolare tenuita' del  fatto  in  ragione  dell'omesso  iter
procedimentale previsto dall'art. 411,  comma  1-bis  del  codice  di
procedura penale: la contraria giurisprudenza di legittimita'. 
    L'applicazione della causa di non  punibilita'  in  questione  al
caso di specie e' tuttavia  preclusa  dal  combinato  disposto  degli
articoli 409, commi 4 e 5, 411, comma 1-bis del codice  di  procedura
penale,   come   interpretato   dalla   Suprema   Corte,   che,   con
giurisprudenza consolidata e non contrastata, nega al giudice per  le
indagini preliminari la  possibilita'  di  pronunciare  ordinanza  di
archiviazione per particolare tenuita' del fatto,  in  assenza  della
speciale procedura  «a  contraddittorio  anticipato»  introdotta  dal
legislatore. 
    Nel caso di specie, la giurisprudenza di legittimita' ritiene che
«Il provvedimento  di  archiviazione  per  particolare  tenuita'  del
fatto, pronunciato ai sensi dell'art. 411,  comma  primo,  codice  di
procedura  penale,  e'  nullo  se  emesso  senza  l'osservanza  della
speciale procedura prevista al comma primo bis di  detta  norma,  non
essendo le disposizioni  generali  contenute  negli  articoli  408  e
seguenti del  codice  di  procedura  penale  idonee  a  garantire  il
necessario contraddittorio sulla configurabilita' della causa di  non
punibilita' prevista dall'art. 131-bis del codice penale (Fattispecie
in cui la Corte ha ritenuto viziato il provvedimento di archiviazione
per particolare tenuita' del fatto emesso a  fronte  della  richiesta
del pubblico  ministero  per  insussistenza  del  reato)».  (Sez.  5,
sentenza n. 36857 del 7 luglio 2016 Cc. (dep. 5 settembre  2016)  rv.
268323 - 01), non ritenendo sufficiente neppure - come  avvenuto  nel
procedimento in epigrafe  -  un'attivazione  del  contraddittorio  in
udienza camerale («Il provvedimento di archiviazione per  particolare
tenuita' del fatto, pronunciato ai sensi dell'art. 411, comma  1  del
codice di procedura penale, e' nullo  se  emesso  senza  l'osservanza
della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma,  non
essendo le disposizioni  generali  contenute  negli  articoli  408  e
seguenti del  codice  di  procedura  penale  idonee  a  garantire  il
necessario contraddittorio sulla configurabilita' della causa di  non
punibilita' prevista dall'art. 131-bis del codice penale (Fattispecie
in cui la Corte ha ritenuto viziata l'ordinanza di archiviazione  per
particolare tenuita' del fatto emessa a seguito dell'udienza camerale
fissata  a  seguito  dell'opposizione  della  persona   offesa   alla
richiesta di archiviazione, nel corso della quale il giudice  per  le
indagini preliminari aveva espressamente invitato le parti a prendere
in esame  anche  il  tema  della  possibile  archiviazione  ai  sensi
dell'art. 131-bis del codice penale)». (Sez. 6, sentenza n. 6959  del
16 gennaio 2018 Cc. (dep.  13  febbraio  2018)  rv.  272483-01;  cfr.
conformi, Sez. 5, n. 40293 del 15 giugno  2017  -  dep.  5  settembre
2017, (...) e altro, rv. 271010; Sez. 5, n. 36857 del 7 luglio  2016,
(...), rv. 268323). 
    Secondo la  citata  giurisprudenza  di  legittimita'  il  decreto
legislativo 16 marzo 2015, n. 28, nell'introdurre l'istituto  di  cui
all'art. 131-bis del codice penale, non ha considerato  l'ipotesi  in
cui sia il giudice per le indagini preliminari a ritenere applicabile
la causa  di  non  punibilita',  in  presenza  di  una  richiesta  di
archiviazione del pubblico ministero per infondatezza  della  notizia
di reato. 
    Espressamente - e si ritornera' sul punto nella parte  motiva  di
questa ordinanza relativa  alla  violazione  dei  canoni  del  giusto
processo - la Suprema Corte afferma che nei casi in  cui  il  giudice
per le indagini preliminari ritenga il fatto meritevole  della  causa
di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale,  dovra'
ripristinare lo schema procedimentale ordinario, restituendo gli atti
al pubblico ministero e disponendo con  ordinanza  che,  entro  dieci
giorni, questi formuli l'imputazione, salvo che il pubblico ministero
non ritenga di presentare una nuova  richiesta  di  archiviazione  ex
art. 411, comma 1-bis del codice di procedura penale. 
    La Suprema Corte, in altri termini, ritiene la procedura  di  cui
all'art. 411, comma 1-bis del  codice  di  procedura  penale  l'unico
meccanismo in grado di assicurare adeguata garanzia alle  prerogative
della persona offesa nonche'  al  diritto  di  difesa  dell'indagato,
comunque inciso da un provvedimento come l'ordinanza di archiviazione
per particolare tenuita'  del  fatto  non  del  tutto  sprovvisto  di
conseguenze pregiudizievoli (a  maggior  ragione,  dopo  l'autorevole
avallo  delle  Sezioni  unite,  secondo  cui  «Il  provvedimento   di
archiviazione per particolare tenuita' dei fatto ex art. 131-bis  del
codice penale deve essere iscritto nel casellario  giudiziale,  ferma
restando la non  menzione  nei  certificati  rilasciati  a  richiesta
dell'interessato,   del   datore   di   lavoro   e   della   pubblica
amministrazione.» (Sez. Un., sentenza n. 38954 del 30 maggio 2019 Cc.
(dep. 24 settembre 2019) rv. 276463 - 01). 
    La  perentorieta'  dell'interpretazione   della   Suprema   Corte
formatasi sulle disposizioni di cui agli articoli 409 e 411, commi  1
e 1-bis del codice di procedura penale non consente a questo  giudice
alternative. 
    La giurisprudenza  di  legittimita',  infatti,  ha  espressamente
ritenuto illegittima l'interpretazione dei giudici di merito che, nei
primi casi di applicazione  del  nuovo  istituto,  facendo  leva  sul
generico riferimento alla possibilita' di archiviazione per  tenuita'
del fatto nel comma 1 dell'art. 411 del codice di  procedura  penale,
ritennero di emettere ordinanze di archiviazione ex art. 131-bis  del
codice penale anche in assenza della speciale  procedura  di  cui  al
comma 1-bis. 
    La solidita' di un vero e proprio «diritto vivente» ostativo alla
prospettiva ermeneutica fatta propria dallo scrivente rappresenta  un
fattore  fondante  la  rilevanza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale   qui   sollevata,   sancendo   l'infruttuosita'    di
un'interpretazione costituzionalmente orientata da parte del  giudice
a  quo,  destinata  ad  infrangersi  contro   lo   scoglio   di   una
giurisprudenza di legittimita' militante in senso opposto (cfr. Corte
costituzionale sentenza n. 299 del 2005). 
    Come e' noto, infatti, in presenza di una pluralita' di  pronunce
conformi di legittimita' e/o di  merito  (cfr.  Corte  costituzionale
sentenza n. 236 del 2010, n. 23 del 2016; ordinanza n. 463 del  2002,
n. 297 del 2007)  nonche'  di  orientamenti  stabilmente  consolidati
nella giurisprudenza (Corte costituzionale - sentenza n. 91 del 2004,
n. 220 del 2015, n.  109  del  2016),  l'obbligo  di  interpretazione
conforme si intende attenuato. 
    D'altra parte, l'utilizzo degli ordinari criteri ermeneutici - in
primis, quello di specialita', avendo  previsto  il  legislatore  una
peculiare forma procedimentale per la richiesta di archiviazione  per
tenuita' del fatto, nonche' quello storico-sistematico, ricostruttivo
della originaria voluntas legis -  inibisce  ulteriormente  qualsiasi
tentativo di interpretazioni costituzionalmente orientate. 
    Ne' puo'  ritenersi  praticabile,  in  quanto  non  espressamente
prevista dal legislatore, ne'  sollecitata  dalla  giurisprudenza  di
legittimita', una soluzione in via di prassi per la quale il giudice,
al termine dell'udienza camerale, restituisca gli  atti  al  pubblico
ministero, «invitandolo» a reiterare la  richiesta  di  archiviazione
nelle forme di cui all'art. 411, comma 1-bis del codice di  procedura
penale. 
    Tale  possibilita'  interpretativa,   peraltro,   si   esporrebbe
egualmente a dubbi di legittimita' costituzionale, piu'  diffusamente
esposti nel paragrafo 3.3. della presente ordinanza. 
    Per  tali  ragioni,  e'  in  definitiva  rilevante  nel  presente
giudizio la questione di legittimita'  costituzionale  del  combinato
disposto prima richiamato, giacche' questo, come  interpretato  dalla
consolidata  giurisprudenza  di  legittimita',  costituisce   l'unico
ostacolo all'applicazione della  causa  di  non  punibilita'  di  cui
all'art. 131-bis del codice penale al fatto per cui si  procede:  ove
il   combinato   disposto   venisse   dichiarato   costituzionalmente
illegittimo, il fatto posto in essere  dal  F.,  per  le  ragioni  in
precedenza addotte, potrebbe dunque essere senz'altro considerato  di
particolare   tenuita'   e   questo   giudice   potrebbe    procedere
all'archiviazione perche' il fatto non e'  punibile  per  particolare
tenuita', a seguito dello svolgimento dell'udienza camerale e  previa
interlocuzione delle parti comparse, sentite sul punto e che  non  si
sono opposte ad una pronuncia in tal senso. 
3. La non manifesta infondatezza della questione. 
    Tanto premesso in punto di rilevanza della questione, ritiene  lo
scrivente  che  l'inibizione  per  il   giudice   per   le   indagini
preliminari, previo contraddittorio in apposita  udienza  camerale  e
stante la mancata opposizione delle parti, di  pronunciare  ordinanza
di archiviazione ex  art.  131-bis  del  codice  penale  in  mancanza
dell'apposita procedura ex  art.  411,  comma  1-bis  del  codice  di
procedura  penale  sia  contraria  ai  principi  di   uguaglianza   e
proporzionalita' (art. 3 della Costituzione), di responsabilita'  per
il fatto e personalita' della responsabilita'  penale  (articoli  25,
comma  2  e  27,  comma  1,  della  Costituzione),  della   finalita'
rieducativa della pena (art. 27, comma 3 della Costituzione), nonche'
di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), anche  in  riferimento
ai principi e criteri direttivi della legge  delega  (art.  76  della
Costituzione), di ragionevole durata del  processo  (art.  101  della
Costituzione  e  6  CEDU,  per  il  tramite   dell'art.   117   della
Costituzione) e di soggezione dei giudici esclusivamente  alla  legge
(art. 101 della Costituzione). 
3.1. I principi sostanziali e  processuali  ispiratori  dell'istituto
della non punibilita' per particolare tenuita' del fatto. 
    Al solo fine di rendere piu' agevole l'esposizione dei  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  nutriti  da  questo   giudice,   appare
opportuno premettere qualche breve considerazione sulla figura  della
particolare tenuita' del fatto. 
    Com'e' noto, con  l'introduzione  dell'art.  131-bis  del  codice
penale ad opera del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, emanato
in attuazione della delega contenuta nella legge 28 aprile  2014,  n.
67, il legislatore ha finalmente introdotto nel sistema penale comune
italiano una disciplina, invero sollecitata da decenni dalla dottrina
penalistica, per le c.d. microviolazioni non autonome.  La  soluzione
dommatica prescelta dal legislatore delegante e da quello delegato e'
stata l'introduzione di una causa generale  di  non  punibilita'  (su
tale pacifica  natura  giuridica  cfr.  Cassazione  pen.,  Sez.  Un.,
sentenza n. 13681/16, (...) nonche' Corte costituzionale, sentenza n.
207 del 2017). 
    Si tratta di una norma di parte generale che, combinata di  volta
in volta con le singole fattispecie criminose, delinea la  fisionomia
dell'illecito bagatellare non punibile, vale a dire quel  fatto-reato
che - mutuando delle efficaci espressioni  impiegate  dalla  dottrina
penalistica tedesca - pur essendo in astratto  «meritevole  di  pena»
(strafwürdig) in quanto offensivo  di  un  bene  giuridico  degno  di
tutela penale,  per  l'esiguita'  dell'offesa  ad  esso  in  concreto
arrecata e per il grado di responsabilita' individuale, non ne e'  in
concreto «bisognoso» (strafbedürftig) - rectius, non e' bisognoso  di
una  pena  come  quella  delineata  dall'art.  27,  comma   3   della
Costituzione,  orientata  alla  rieducazione,   e   non   alla   mera
retribuzione per il fatto commesso. 
    La rinuncia dell'ordinamento all'applicazione  di  una  pena  per
fatti  di  scarsa  gravita'  costituisce  dunque   l'attuazione   dei
principi, di  rango  costituzionale,  di  sussidiarieta'  (o  extrema
ratio) del diritto penale e di  proporzionalita',  inteso  nella  sua
componente   tripartita   della   idoneita'   (Geeignetheit),   della
necessita' (Erforderlichkeit) e della proporzione  in  senso  stretto
(Verhältnismäβigkeit im engeren Sinne),  intimamente  connessi,  come
meglio  si  tentera'  di  porre   in   evidenza,   ai   principi   di
responsabilita' per il fatto (art. 25, comma 2  della  Costituzione),
di personalita' della responsabilita' penale (art. 27, comma 1, della
Costituzione)  e  a  quello  rieducativo  (art.  27,  comma  3  della
Costituzione). 
    Come gia' anticipato in punto di rilevanza  della  questione,  il
legislatore ha tracciato il campo  applicativo  della  causa  di  non
punibilita' in esame ancorando il suo riconoscimento a  tre  distinte
condizioni, tra loro cumulative (art. 131-bis,  comma  1  del  codice
penale): 
        1) che si tratti di  reato  punito  con  pena  detentiva  non
superiore nel massimo a cinque armi, ovvero con pena pecuniaria, sola
o congiunta alla prima; 
        2) che l'offesa sia di  particolare  tenuita',  tenuto  conto
della gravita' del danno o  del  pericolo  e  delle  modalita'  della
condotta; 
        3) che il comportamento non sia abituale. 
    La valutazione legislativa  circa  la  particolare  tenuita'  del
fatto e' dunque fondata su tre  criteri  quantitativo-qualitativi  di
selezione dell'illecito penale bagatellare: il  primo  e'  di  natura
astratta, in  quanto  agganciato  all'entita'  della  pena  detentiva
massima comminata; il secondo  e  il  terzo  sono  invece  di  natura
concreta,  in  quanto  ancorati  alla  scarsa  gravita'  oggettiva  e
soggettiva dell'illecito  hic  et  nunc  considerato,  desunte  dagli
indici-criteri della tenuita' dell'offesa (a sua volta  da  valutarsi
in base agli indici-requisiti dell'entita' del danno o  del  pericolo
cagionato e delle modalita' non allarmanti della condotta, id est del
disvalore d'evento e del disvalore oggettivo d'azione)  e  della  non
abitualita'  del  comportamento  (id  est,  della  non  pericolosita'
dell'autore). 
    Dall'analisi di tali criteri emerge dunque che il legislatore, in
linea  con  una  concezione  gradualistica  dell'illecito  nelle  sue
componenti sia oggettive che soggettive, ha considerato  suscettibili
di essere considerati di particolare tenuita' reati - rectius fatti -
appartenenti ad  un'ampia  ed  eterogenea  macro-categoria,  ad  oggi
delimitata dalla circostanza che la relativa pena detentiva  edittale
massima non sia superiore a cinque anni: al di sopra di  tale  limite
vi e' una presunzione assoluta di non particolare tenuita' del fatto,
che la Corte costituzionale ha gia' avuto modo di ritenere di per se'
non irragionevole (sentenza n. 207 del 2017). 
    Al di sotto di tale limite, invece, qualsiasi reato  puo'  essere
considerato in concreto di particolare tenuita', ove il fatto storico
conforme alla fattispecie  incriminatrice  sia  caratterizzato  dagli
indici-criteri della tenuita' dell'offesa e della non abitualita' del
comportamento, la cui ricorrenza  va  di  conseguenza  accertata,  di
volta in volta, dal giudice mediante una  «valutazione  mirata  sulla
manifestazione del reato, sulle sue  conseguenze»,  dal  momento  che
«... non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica. E'  la
concreta manifestazione del reato che  ne  segna  il  disvalore»,  di
talche' al di sotto del limite di pena detentiva  massima  di  cinque
anni «non si da' tipologia di reato per la quale non sia possibile la
considerazione della modalita' della condotta; ed in cui  sia  quindi
inibita  ontologicamente  l'applicazione  del  nuovo  istituto»   (in
termini Cassazione pen., Sez. Un., (...), cit.). 
    E'  pertanto  inevitabile  che,   nella   valutazione   di   tali
indicatori, analogamente a quanto avviene - e non a caso - in fase di
commisurazione della pena, il giudice (e non il  pubblico  ministero,
si  ritornera'  sul  punto  ultra)  goda  di  un  ampio  margine   di
apprezzamento,  strettamente  connesso  alla   variegata   gamma   di
possibili manifestazioni concrete  di  una  medesima  fattispecie  di
reato, fatte salve le sole presunzioni assolute  di  non  particolare
tenuita' dell'offesa previste dall'art. 131-bis, comma 2  del  codice
penale («L'offesa non puo' essere ritenuta di particolare tenuita' ai
sensi del primo comma  ...»)  e  di  abitualita'  del  comportamento,
previste dal comma 3 («Il comportamento e' abituale ...»). 
    In    altri    termini,    nell'ottica    sostanzialistica     ed
assiologicamente orientata espressiva del  volto  costituzionale  del
diritto penale, la gravita' di un fatto-reato, e con essa la risposta
sanzionatoria approntata dall'ordinamento, dipende, in astratto,  dal
grado di meritevolezza del bene giuridico  tutelato  e  dal  tipo  di
elemento psicologico richiesto dalla fattispecie  (elementi  valutati
in astratto dal legislatore, mediante la previsione di  differenziate
cornici  edittali);  e,  in  concreto,  dalla  gravita'   dell'offesa
arrecata al bene, dalle  modalita'  della  condotta,  dall'intensita'
dell'elemento  psicologico,  nonche'  dal  grado  di  responsabilita'
colpevole del suo autore: in altri termini, dalla specificita'  della
concreta e irripetibile  modalita'  di  manifestazione  dell'illecito
nella  realta'  fenomenica,  perche',  come  ricordato  dalle  stesse
Sezioni unite della Suprema Corte  («l'uomo  deve  essere  condannato
secondo la verita' e non secondo le presunzioni»  (Cass.  pen.,  Sez.
Un., (...), cit.). 
    Tali connotazioni sostanziali dell'istituto della  causa  di  non
punibilita' per  particolare  tenuita'  del  fatto  si  riallacciano,
strettamente, altresi' ad esigenze  processualistiche,  rappresentate
dagli ideali, espressione di una matura civilta' giuridica  liberale,
per cui il processo rappresenta di per se' una pena per  un  soggetto
presunto  innocente  e,  in  un'ottica  di  costi-benefici  non  solo
economici  ma  soprattutto   umani,   la   «risorsa   Giustizia»   e'
caratterizzata da finitezza e deve essere, dunque,  amministrata  con
proporzionalita' e ragionevolezza. 
    Come testualmente sancito nella relazione illustrativa al decreto
legislativo   «...   sotto   il   profilo   processuale,   l'istituto
dell'irrilevanza   contribuisce   a    realizzare    l'esigenza    di
alleggerimento  del  carico  giudiziario  nella  misura  in  cui   la
definizione del procedimento tende a collocarsi nelle sue prime fasi.
Peraltro, la definizione anticipata per irrilevanza del fatto,  oltre
a soddisfare esigenze di deflazione processuale,  risulta  del  tutto
consentanea anche al principio di proporzione, essendo  il  dispendio
di energie processuali per fatti bagatellari sproporzionato  sia  per
l'ordinamento sia per l'autore, costretto a sopportare il peso  anche
psicologico del processo a suo carico». 
    Cio' premesso in via generale, a fronte  di  un  fatto  di  reato
suscettibile di valutazione ai sensi dell'art. 131-bis del codice  di
procedura penale, il gia' citato combinato  disposto  degli  articoli
409 e 411 del codice di procedura  penale,  come  interpretato  dalla
giurisprudenza di legittimita', impedisce al giudice per le  indagini
preliminari l'applicazione dell'istituto in ragione di  un  approccio
eminentemente  formalistico  che,  tuttavia,  come  si   vedra'   nel
prosieguo della motivazione, ad avviso di questo giudice finisce  per
frustrare quelle legittime esigenze, sostanziali e  processuali,  che
l'ordito normativo di riferimento dovrebbe contribuire a difendere. 
3.2. La violazione del principio  di  ragionevolezza  intrinseca:  le
finalita' sostanziali della legge delega (articoli 3, 27, commi  1  e
3, 76 della Costituzione). 
    Il combinato disposto normativo oggetto della presente  ordinanza
presenta evidenti profili di irragionevolezza intrinseca,  in  quanto
reca un portato ermeneutico in contrasto con le finalita' sostanziali
e processuali poste a fondamento dell'istituto. D'altronde,  come  da
tempo la stessa Corte costituzionale ha inequivocabilmente  affermato
«Il  principio  di  proporzionalita'  [va]  inteso  [...]   anche   e
soprattutto, quale "criterio generale" di congruenza degli  strumenti
normativi   rispetto   alle   finalita'   da    perseguire»    (Corte
costituzionale, sentenza n. 487 del 1989). 
    Con  riferimento  alle  finalita'   sostanziali   «tradite»   dal
combinato disposto degli articoli 409 e 411 del codice  di  procedura
penale, va rilevato che esso preclude  al  giudice  per  le  indagini
preliminari in sede di udienza camerale un  vaglio  individualizzante
del singolo e irripetibile fatto storico portato alla sua attenzione,
costringendolo   cosi'   ad   imbastire   un   processo   finalizzato
all'applicazione di  una  pena  virtualmente  sproporzionata  nell'an
ancor prima che nel quantum, poiche' da applicare ad un fatto che, in
base ai criteri generali fissati dal medesimo legislatore, non ne  e'
invece «bisognoso»: cio' determina una violazione  non  soltanto  del
principio di uguaglianza, sub specie di ragionevolezza e proporzione,
ma anche dei principi di personalita' della responsabilita' penale  e
della finalita' rieducativa della pena di cui all'art. 27, commi 1  e
3 della Costituzione. 
    Infatti,  l'individualizzazione  del  trattamento   sanzionatorio
costituisce  evidente  attuazione  del  «mandato  costituzionale   di
"personalita'" della responsabilita' penale di cui all'art. 27, primo
comma della Costituzione» (Corte costituzionale, sentenza n. 222  del
2018); al contempo, «... una pena non proporzionata alla gravita' del
fatto (e non percepita come tale dal condannato)  si  risolve  in  un
ostacolo alla sua funzione rieducativa» (Corte  costituzionale,  ult.
cit.; ma v. gia', ex multis, sentenza n. 236 del 2016  e  n.  68  del
2012). 
    E come ormai da tempo la  Corte,  superando  la  concezione  c.d.
polifunzionale  della  pena,  ha  inequivocabilmente  affermato,   il
rispetto della finalita' rieducativa della pena di cui  all'art.  27,
comma  3  della  Costituzione,  implica  e  al  contempo  impone   un
«"principio di proporzione" tra qualita' e quantita' della  sanzione,
da una parte, e offesa, dall'altra» e, «lungi dal  rappresentare  una
mera generica tendenza riferita al solo  trattamento,  indica  invece
proprio una delle qualita' essenziali e generali  che  caratterizzano
la pena nel suo  contenuto  ontologico  e  l'accompagnano  da  quando
nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in  concreto
si estingue» (Corte costituzionale, sentenza n. 313 del 1990). 
    Come,   da   ultimo,   la   giurisprudenza   costituzionale    ha
vigorosamente rimarcato «... allorche'  le  pene  comminate  appaiano
manifestamente  sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  del   fatto
previsto quale reato, si profila un contrasto con gli articoli 3 e 27
della Costituzione, giacche' una pena non proporzionata alla gravita'
del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex
multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del  1994).
I principi di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione «esigono di
contenere la privazione della liberta' e la sofferenza inflitta  alla
persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo  scopo  di
favorirne il cammino  di  recupero,  riparazione,  riconciliazione  e
reinserimento sociale» (sentenza  n.  179  del  2017)  in  vista  del
«progressivo reinserimento armonico della persona nella societa', che
costituisce, l'essenza della finalita' rieducativa»  della  pena  (da
ultimo,  sentenza  n.  149  del  2018).  Al  raggiungimento  di  tale
impegnativo  obiettivo  posto  dai  principi  costituzionali  e'   di
ostacolo l'espiazione di una pena  oggettivamente  non  proporzionata
alla gravita'  del  fatto,  quindi,  soggettivamente  percepita  come
ingiusta  e  inutilmente  vessatoria  e,  dunque,  destinata  a   non
realizzare lo scopo  rieducativo  verso  cui  obbligatoriamente  deve
tendere» (sentenza n.  40  del  2019;  v.,  da  ultimo,  sentenza  n.
102/2020). 
    Questo giudice non ignora che, in sede  di  udienza  camerale  ex
art. 409 del codice di procedura penale, lo scrivente non e' chiamato
ad irrogare  concretamente  una  pena  nei  confronti  dell'indagato.
Tuttavia, l'inibizione della  formula  archiviativa  per  particolare
tenuita'  del  fatto,  in  uno  con   l'imposizione   nei   confronti
dell'indagato  di  un  «immeritato  processo»  mediante  il   ricorso
all'imputazione   coatta,   professato   dalla   giurisprudenza    di
legittimita',  costituiscono,  a  sommesso  avviso  dello  scrivente,
parimenti delle violazioni dei principi sopra richiamati, nella parte
in cui non consentono al  giudice  per  le  indagini  preliminari  di
«disapplicare» un virtuale trattamento  sanzionatorio  nei  confronti
dell'indagato, che nel caso concreto risulterebbe sproporzionato. 
    Ebbene, la potenziale applicazione  di  una  pena,  anche  minima
(mediante  un  processo,  anche  breve)  all'autore  di  un  illecito
considerato di particolare tenuita' alla luce  dei  criteri  previsti
dallo stesso ordinamento, e dunque di essa non bisognoso, costituisce
una  reazione  sproporzionata  dell'ordinamento,  che   sacrifica   e
banalizza   la   liberta'   personale   dell'individuo,    dichiarata
«inviolabile» dall'art. 13 della Costituzione, a fronte di fatti  che
non dimostrano  alcun  reale  bisogno  di  pena:  la  sua  inflizione
(peraltro appannaggio di un giudice «diverso» da  quello  chiamato  a
valutare  la  richiesta  di  archiviazione  del  pubblico  ministero)
realizzerebbe, pertanto, un ingiustificato, inutile  e  intollerabile
sacrificio della liberta' personale, in violazione  dei  principi  di
uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita', di personalita' della
responsabilita' penale e di rieducazione, oltre che di sussidiarieta'
del diritto penale o extrema ratio, il quale esige  che  la  sanzione
piu' grave di cui l'ordinamento dispone sia  attivata  esclusivamente
in relazione a fatti realmente bisognosi  di  pena,  in  mancanza  di
strumenti alternativi di tutela (cfr., per tutte, la sentenza n.  364
del 1988). 
    Piuttosto, l'applicazione di una pena sproporzionata  in  se'  in
quanto  non  necessaria  per  il  perseguimento  delle  finalita'  di
risocializzazione di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione -  e
con  essa  la  celebrazione  del  relativo  processo  -   assume   un
significato eminentemente  simbolico  (benche'  simbolici  non  siano
affatto i risultati concreti che essa produce sulle persone «in carne
ed  ossa»),  nulla  apportando  alla  concreta  tutela  dei   diritti
fondamentali dei soggetti coinvolti. 
    Appare appena il caso di sottolineare che tali  rationes  sottese
all'introduzione dell'istituto costituiscono il plafond dei  principi
e criteri direttivi della legge n. 67 del 2014, palesemente violati -
con conseguente violazione altresi' dell'art. 76 della Costituzione -
dal combinato disposto in questione. 
3.3. La violazione del principio  di  ragionevolezza  intrinseca:  le
finalita' processuali della legge delega (articoli 3, 76,  101,  111,
117 della Costituzione; art. 6 CEDU). 
    Tra gli  effetti  distorsivi  del  combinato  disposto  normativo
oggetto della presente ordinanza di rimessione  molteplici  investono
la struttura processuale dell'istituto della particolare tenuita' del
fatto. 
    Come gia' esposto in precedenza, la possibilita' per  il  giudice
delle indagini preliminari di  procedere  ad  una  archiviazione  per
particolare  tenuita'  del  fatto  residua,  a  tutti  gli   effetti,
nell'esclusivo  appannaggio  della  discrezionalita'  del  magistrato
inquirente. 
    Questo giudice non ignora che il legislatore conserva un  margine
di  discrezionalita'  nel  configurare   l'iter   procedimentale   da
percorrere per l'applicazione di una causa di non  punibilita'  (cfr.
ordinanza n. 238 del 2019). 
    Tuttavia, anche in  tali  ambiti  le  scelte  legislative  devono
rispettare il limite della ragionevolezza, come pure la stessa  Corte
costituzionale ha piu' volte ribadito [ex multis, sentenza n. 185 del
2015:   «Secondo   la   costante    giurisprudenza    costituzionale,
l'individuazione delle condotte  punibili  e  la  configurazione  del
relativo trattamento sanzionatorio rientrano  nella  discrezionalita'
legislativa, il cui esercizio non puo' formare oggetto di  sindacato,
sul piano della legittimita' costituzionale, salvo che si traduca  in
scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze
n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e  n.
394 del 2006)»]. 
    Ebbene, come subito piu' dettagliatamente si illustrera'  facendo
applicazione dei suddetti criteri direttivi  tracciati  dalla  Corte,
l'inibizione per il giudice delle indagini preliminari  di  procedere
all'archiviazione per particolare  tenuita'  del  fatto  in  mancanza
della procedura ex art. 411, comma  1-bis  del  codice  di  procedura
penale ma a seguito dell'espletamento del contraddittorio in apposita
udienza camerale, nel corso della quale l'indagato non si e'  opposto
ad una tale pronuncia, sembra costituire  una  di  quelle  «manifeste
ragioni di  irrazionalita'  o  discriminazioni  prive  di  fondamento
giuridico, che sole potrebbero consentire  di  sindacare  [l']  ampio
potere discrezionale riservato al legislatore» (sentenza n.  175  del
1997, ma anche n. 416 del 1996;  n.  295  e  n.  188  del  1995),  in
riferimento alla quale sarebbe consentita alla Corte «una valutazione
di  legittimita'  costituzionale  [...]  fondata  soltanto   su   una
irrazionalita' manifesta, irrefutabile» (sentenza n. 46 del 1993,  ma
anche n. 236 del 2008, n. 81 del 1992, n. 206 del 1999). 
    Di talche', tale  inibizione  per  il  giudice  per  le  indagini
preliminari,  da  un  lato,  spiana  la  strada  ad  una   disciplina
irragionevolmente differenziata in casi  identici,  a  seconda  della
diversita' dell'iter procedimentale prescelto dal pubblico ministero;
dall'altro, e di conseguenza, introduce un automatismo che  costringe
il giudice per le indagini preliminari a procedere ad  un'imputazione
coatta, del tutto dissonante rispetto alle esigenze processuali poste
a base dell'istituto. 
    Quanto  all'irragionevolezza  intrinseca,  non   sembra   esservi
innanzitutto alcuna ratio giustificatrice del  meccanismo  preclusivo
disegnato dal combinato disposto degli  articoli  409  e  411,  comma
1-bis del codice di procedura penale. 
    Il legislatore mostra  di  voler  tutelare  le  esigenze  sottese
all'applicazione dell'art. 131-bis del codice penale nella fase delle
indagini mediante il ricorso ad un  contraddittorio  -  preventivo  e
cartolare - quale quello previsto  dall'art.  411,  comma  1-bis  del
codice di procedura penale. 
    Come e' pacificamente  affermato  tanto  in  dottrina  quanto  in
giurisprudenza,  tuttavia,  le  parti  processuali,  informate  della
richiesta di archiviazione per particolare tenuita'  del  fatto,  non
assumono alcun potere di veto rispetto alla declaratoria del giudice,
potendo  soltanto  prendere   visione   degli   atti   e   presentare
opposizione, indicando le ragioni del dissenso. 
    Orbene, la giurisprudenza di  legittimita',  ritenendo  nullo  il
provvedimento di archiviazione per  particolare  tenuita'  del  fatto
pronunciato a  seguito  di  apposita  udienza  camerale  fissata  dal
giudice dopo una richiesta di archiviazione  per  infondatezza  della
notitia  criminis,  di  fatto  ha  rifiutato  l'equipollenza  tra  un
contraddittorio preventivo e cartolare ed un contraddittorio  tra  le
parti, dinnanzi al giudice, per certi versi, maggiormente «informato»
ed efficace. 
    La negazione di tale equipollenza non e' dunque ancorata ad alcun
vincolo di  realta',  non  e'  supportata  e  giustificata  da  alcun
criterio   logico-giuridico   razionale:   essa   risulta,   percio',
irragionevole   e   arbitraria,   animata   da    un    atteggiamento
interpretativo fondamentalmente formalista,  a  maggior  ragione  nei
casi,  quali  quello  all'attenzione  di  questo  giudice,   in   cui
l'indagato per il tramite del suo difensore non si e' opposto ad  una
pronuncia di archiviazione ex art. 131-bis del  codice  di  procedura
penale, ne' ha chiesto, pur potendolo, un rinvio del procedimento  al
fine di documentare la sua eventuale opposizione. Parimenti faceva la
persona offesa. 
    L'imprescindibilita'   di   un    contraddittorio    «previamente
informato», nel caso dell'archiviazione per particolare tenuita'  del
fatto, affinche' l'indagato e la persona offesa possano presentare al
giudice i motivi del loro eventuale dissenso non  tiene  conto  delle
irragionevoli disparita' di trattamento rispetto alle ipotesi in cui,
nelle ulteriori fasi processuali, la pronuncia ex  art.  131-bis  del
codice penale puo' intervenire ex officio,  addirittura  senza  alcun
contraddittorio sul punto (cfr. Cassazione - Sez. 1, n. 27752  del  9
maggio 2017, (...), rv. 270271; Sez. 6, n. 7606 del 16 dicembre 2016,
(...), rv. 269164; Sez. 5, n. 5800 del  2  luglio  2015,  dep.  2016,
(...), rv. 267989, secondo cui  la  Suprema  Corte  nel  giudizio  di
legittimita' puo' dichiarare d'ufficio la  particolare  tenuita'  del
fatto col conseguente annullamento senza  rinvio  della  sentenza  di
condanna  quando  dalla  analisi  della   vicenda   giudicata   siano
deducibili, immediatamente e senza ricorso ad ulteriori  accertamenti
fattuali,  i  presupposti  richiesti  dall'art.  131-bis  del  codice
penale, in quanto tale accertamento «attiene alla corrispondenza  del
fatto, nel  suo  minimo  di  tipicita',  al  modello  legale  di  una
fattispecie incriminatrice».),  ovvero,  in  modo  analogo  a  quanto
avvenuto nell'udienza celebrata ex art. 409, comma 2  del  codice  di
procedura penale dallo scrivente, sentendo  le  parti  comparse,  ivi
inclusa la persona  offesa,  e  registrando  la  mancata  opposizione
dell'indagato (non essendo comparso il pubblico ministero),  in  modo
sostanzialmente analogo  al  subprocedimento  disciplinato  dall'art.
469, comma 1-bis del codice di procedura penale. 
    L'impossibilita'  di   procedere   ad   una   archiviazione   per
particolare tenuita' del fatto in mancanza dell'apposita richiesta ex
art. 411, comma 1-bis del codice di procedura penale si traduce,  per
giunta, in un eguale trattamento di  situazioni  eterogenee,  rimesso
alla discrezionalita' del pubblico ministero, parte del procedimento:
non consentendo al giudice per le indagini  preliminari  in  sede  di
udienza camerale ex art.  409  del  codice  di  procedura  penale  di
apprezzare  i  profili  di  particolare  tenuita'  dell'offesa,   pur
emergenti nel caso concreto sottoposto al suo  vaglio,  il  combinato
disposto censurato impone al giudice (e  all'indagato)  un  processo,
alla medesima stregua di fatti connotati da  un  disvalore  oggettivo
effettivamente  superiore  alla  soglia  della  particolare  tenuita'
dell'offesa e, come tali, meritevoli di accertamento processuale e di
eventuale sanzione. 
    Ma siffatta irragionevolezza emerge soprattutto dalla circostanza
che rispetto a fatti analoghi, caratterizzati da  paragonabili  bassi
gradi di offesa e di colpevolezza  -  e  che  dunque  sembrano  poter
essere correttamente elevati a tertia comparationis - risulta tuttora
applicabile la causa di non punibilita'  prevista  dall'art.  131-bis
del codice penale in  sede  di  archiviazione,  purche'  il  pubblico
ministero abbia proceduto nelle forme  di  cui  all'art.  411,  comma
1-bis del codice di procedura penale:  l'ordito  normativo  censurato
determina, pertanto, anche un trattamento differenziato di situazioni
omogenee, parimenti rimesso all'iniziativa dell'ufficio di procura. 
    In definitiva,  per  le  ragioni  sinora  esposte,  il  combinato
disposto   qui   censurato   appare   caratterizzato   altresi'    da
un'irragionevolezza estrinseca, giacche' determina, al  contempo,  un
irragionevole trattamento differenziato di situazioni omogenee  e  un
irragionevole  trattamento  omogeneo  di  situazioni  differenti,   e
percio' anche sotto tale profilo si pone in contrasto  con  l'art.  3
della Costituzione. 
    A  tali  considerazioni  deve  aggiungersi  che  il  portato   di
irragionevolezza del combinato disposto qui censurato deriva  da  una
evidente distorsione  nell'assetto  ordinamentale  dei  rapporti  tra
pubblico   ministero   e   giudicante,   nello    specifico    ambito
dell'applicazione  della  particolare   tenuita'   del   fatto,   con
conseguenziale  violazione   del   disposto   dell'art.   101   della
Costituzione   secondo   il   quale   i   giudici   sono   sottoposti
esclusivamente alla legge. 
    Come riconosciuto dalla stessa  giurisprudenza  di  legittimita',
infatti, il potere di verificare la sussistenza delle condizioni  per
procedere all'applicazione dell'art. 131-bis  del  codice  penale  e'
espressa prerogativa del magistrato giudicante, quale  caratteristica
intrinseca dello ius dicere «il potere  di  qualificazione  giuridica
del fatto e'  "connaturale  all'esercizio  della  giurisdizione":  e'
prerogativa che compete al giudice in tutte le fasi  ed  in  tutti  i
gradi del processo, e, quale controllo  di  legalita'  sui  risultati
delle indagini nella loro totalita', non  puo'  intendersi  in  senso
restrittivo come individuazione del  solo  corretto  nomen  iuris  da
attribuire al fatto, ma investe anche gli elementi accidentali  e  la
concreta punibilita' del soggetto imputato.» (Sez. Un.,  sentenza  n.
20569 del 18 gennaio 2018 Cc. (dep. 9 maggio 2018) rv. 272715 - 0). 
    «A  ben  vedere  il  riscontro  sulla   lesivita'   dell'illecito
contestato nell'imputazione, al fine  di  un'eventuale  archiviazione
del  procedimento,  (...)  non   implica   alcuna   invasione   delle
attribuzioni dell'organo requirente, ma appartiene  all'attivita'  di
qualificazione giuridica del fatto di reato, nel senso che, una volta
condotta la ricognizione degli elementi costitutivi della fattispecie
tipica, nel caso concreto perfettamente  integrata  e  riferibile  al
comportamento dell'imputato, il giudice procede  alla  considerazione
dell'effettivo disvalore del comportamento antigiuridico, presupposto
di applicabilita' della causa di  non  punibilita'  di  cui  all'art.
131-bis del codice penale. In altri termini, come si  e'  gia'  avuto
modo  di  affermare,  il  giudizio  sulla  tenuita'  offensiva  della
condotta antigiuridica non riguarda la ricostruzione della dimensione
storico-naturalistica  e  l'identificazione  della   sua   componente
materiale,  ma  la  valutazione  del  grado  maggiore  o  minore   di
aggressione  del  bene  giuridico  protetto   e   della   complessiva
manifestazione dell'attivita' criminosa al fine  di  riscontrare  se,
attraverso una «ponderazione quantitativa rapportata al disvalore  di
azione, a quello  di  evento,  nonche'  al  grado  di  colpevolezza»,
l'incidenza lesiva, insita nel fatto rientrante nel  tipo  legale  di
illecito, sia talmente esigua da non meritare punizione» (cfr.,  Sez.
Un., n. 13681 del 25 febbraio 2016, (...), rv. 266590). 
    Nel caso  di  specie,  invece,  tale  connotazione  eminentemente
giurisdizionale e' filtrata  dalla  preventiva  scelta  del  pubblico
ministero che, adottando un iter  procedimentale  anziche'  un  altro
nella procedura di archiviazione, puo' impedire  al  giudice  per  le
indagini preliminari una completa disamina della notitia  criminis  e
delle conseguenze giuridiche che ne conseguono. 
    Tale articolazione normativa rappresenta un ulteriore  indice  di
incostituzionalita' del combinato disposto qui censurato, atteso che,
come ricordato  dalla  stessa  giurisprudenza  costituzionale  (Corte
costituzionale - sentenza n. 148/1963) il pubblico ministero  non  e'
titolare  della  potesta'  di  giudicare  e,  dunque,   non   trovano
applicazione in suo favore le garanzie degli articoli  101,  comma  2
della Costituzione e 25 della Costituzione, bensi' quelle  diverse  -
parimenti rilevanti - rappresentate dagli articoli 104, 107, comma  4
e 112 della Costituzione, le  quali,  come  sottolineato  da  accorta
dottrina,  forniscono  una  indicazione   netta   nel   senso   della
distinzione  e  separazione  (tra  pubblico  ministero  e   giudice),
giacche' «se il pubblico ministero e' titolare del diritto di azione,
egli e' percio' stesso estraneo  all'esercizio  della  giurisdizione:
perche'  tale  esercizio  e'  provocato  dall'azione,  ma  da  questa
nettamente si distingue». 
    Il combinato disposto qui censurato nella lettura  fornita  dalla
giurisprudenza di legittimita', inoltre, si pone in aperta dissonanza
rispetto ai piu' autorevoli  avalli  della  Suprema  Corte  che,  nel
delineare  il  delicato  equilibrio  di  rapporti   istituzionali   e
funzionali tra ufficio di  procura  e  ufficio  del  giudice  per  le
indagini  preliminari,  ha  definitivamente  escluso  una  logica  di
formalistica corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. 
    Le Sezioni unite della Suprema Corte,  infatti,  hanno  affermato
che «in sede di archiviazione,  il  sindacato  del  giudice  riguarda
l'integralita'  dei   risultati   dell'indagine,   restando   esclusa
qualsiasi possibilita' di ritenere che un simile apprezzamento  debba
circoscriversi all'interno dei soli confini tracciati  dalla  notitia
criminis delineata dal pubblico ministero,  ed  ha  aggiunto  che  il
thema decidendum che investe il giudice non si  modella  in  funzione
dell'ordinario dovere di pronunciarsi su di una specifica domanda, ma
del piu' ampio potere di apprezzare se, in  concreto,  le  risultanze
dell'attivita' compiuta nel corso delle indagini preliminari siano  o
meno esaurienti ai  fini  della  legittimita'  della  "inazione"  del
pubblico ministero. La questione  dei  rapporti  tra giudice  per  le
indagini preliminari e pubblico ministero in sede  di  archiviazione,
quindi, non sembra essere tanto quella dell'oggetto  (intera  notizia
di reato o soltanto  imputazione  elevata  del  pubblico  ministero),
quanto piuttosto quella  del  rapporto:  esercizio  azione  penale  -
controllo giudiziale. Appare di tutta evidenza che il giudice per  le
indagini preliminari non puo' limitarsi ad un  semplice  esame  della
richiesta finale del pubblico ministero, ma deve  esercitare  il  suo
controllo sul complesso degli atti  procedimentali  rimessigli  dallo
stesso pubblico ministero; e', d'altro canto, del tutto evidente  che
non puo' prendere egli l'iniziativa di esercitare l'azione penale  in
nome e per conto del pubblico ministero» (Sez. Un., sentenza n. 22909
del 31 maggio 2005 Cc. (dep. 17 giugno 2005) rv. 231163 - 0). 
    Il meccanismo procedimentale di cui all'art. 411, comma 1-bis del
codice di procedura penale  -  unicum  nel  sottosistema  processuale
delineato  dal  legislatore   per   disciplinare   l'istituto   della
particolare tenuita' del fatto - espone il fianco ad evidenti profili
di irragionevolezza intrinseca ed estrinseca,  per  giunta  veicolati
attraverso  un'indebita  attribuzione  al  magistrato  inquirente  (a
detrimento,  invece,  delle  prerogative  di  quello  giudicante)  di
potesta' non connesse alle ragioni di esercizio  dell'azione  penale,
bensi' stricto sensu giurisdizionali. 
    Infine, il combinato disposto qui censurato si pone  altresi'  in
contrasto con il principio di ragionevole durata del processo  e,  di
conseguenza, con la  finalita'  di  deflazione  processuale  posta  a
fondamento dell'istituto di cui all'art. 131-bis del codice penale. 
    Come   sostenuto   dalla   giurisprudenza   costituzionale,    la
ragionevole durata e' oggetto, «oltreche' di un interesse collettivo,
di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno
di quello ad un giudizio equo e imparziale, come  oggi  espressamente
risulta dal dettato dell'art. 111, comma 2 della Costituzione» (Corte
costituzionale, 21 marzo 2002, n. 78, altresi' Corte  costituzionale,
26 aprile 2018, n. 88). La garanzia in esame e' funzionale, come piu'
volte affermato anche dalla giurisprudenza sovranazionale, a tutelare
il  relativo  titolare  «dal  rischio  di  restare  troppo  a   lungo
nell'incertezza della propria sorte»  (C.  eur.,  10  novembre  1969,
Stogmuller c. Austria, § 5: «in criminal matters, especially,  it  is
designed to avoid that a person charged should remain too long  in  a
state of uncertainty about  his  fate»),  sul  presupposto  che  tale
condizione nel processo penale - a prescindere dall'esito piu' o meno
fausto - sia di per se' fonte di sofferenza individuale. 
    Il principio, come e'  noto,  affonda  le  sue  radici  non  solo
nell'art. 111,  comma  2  della  Costituzione,  ma  altresi'  in  una
congerie di norme internazionale,  parimenti  violate  dal  combinato
disposto qui censurato (art. 6 CEDU  per  il  tramite  dell'art.  117
della Costituzione, art. 47 CDFUE, nonche' art. 14,  lettera  c)  del
Patto internazionale sui diritti civili e politici) e,  per  pacifica
giurisprudenza costituzionale e convenzionale, si estende altresi'  a
tutela dell'indagato che abbia avuto conoscenza  del  procedimento  a
suo carico (Corte costituzionale, 23 luglio 2015, n. 184) - come  nel
caso di specie, a seguito della notifica del  decreto  di  fissazione
dell'udienza camerale ex art. 409, comma 2 del  codice  di  procedura
penale - e non del solo imputato (Corte EDU, 15 luglio 1982, Eckle c.
Germania, § 73, secondo cui i termini «charge» e  «charged»  alludono
a: «the official notification given to an individual by the competent
authority of an allegation that he has committed a criminal  offence,
a definition that also corresponds to the test whether "the situation
of the [suspect] has been substantially affected"». V. anche C. eur.,
10 dicembre 1982, (...) c. Italia, § 34. Piu' di recente, Corte  EDU,
5 ottobre 2017, Kaleja c. Lettonia, § 36: «The Court reiterates  that
in criminal matters, the "reasonable time" referred to in Article 6 §
1 begins to run as soon as a person is "charged". A "criminal charge"
exists from the moment that an individual is officially  notified  by
the competent authority of an allegation  that  he  has  committed  a
criminal offence, or from the point at which his situation  has  been
substantially affected by actions  taken  by  the  authorities  as  a
result of a suspicion against him»; cfr. anche, da ultimo, Corte EDU,
20 giugno 2019, Chiarello c. Germania, § 44). 
    Il  principio  della  ragionevole  durata  del   processo,   come
interpretato dalla giurisprudenza convenzionale,  obbliga  gli  Stati
membri, in primo luogo, «a organizzare il loro sistema giudiziario in
modo che le giurisdizioni possano assolvere all'esigenza di celebrare
i processi in termini ragionevoli»  (C.  eur.,  GC,  29  marzo  2006,
(...) c. Italia, cit., in particolare §§  183-187),  prescrivendo  al
legislatore di porre le  condizioni  ordinamentali,  organizzative  e
processuali piu' idonee al conseguimento degli obiettivi connessi  ad
un congruo accertamento processuale. 
    Cio' premesso, a  causa  dell'inibizione  per  il  giudice  delle
indagini preliminari  di  disporre  l'archiviazione  per  particolare
tenuita' del fatto  a  seguito  di  una  richiesta  di  archiviazione
avanzata dal pubblico ministero per  infondatezza  della  notizia  di
reato nonostante la mancata opposizione dell'indagato  e  sentita  la
persona offesa, non soltanto  non  sono  raggiunte  le  finalita'  di
deflazione processuale, ma in misura deteriore il procedimento assume
una durata contraria alle sue stesse  finalita'  e,  per  cio'  solo,
irragionevole. 
    Il diritto vivente qui censurato, infatti, impone al giudice  per
le indagini preliminari che ritenga  il  fatto  alla  sua  attenzione
meritevole della causa di non punibilita' ex art. 131-bis del  codice
penale - e dunque, sussistente in tutti i suoi elementi  oggettivi  e
soggettivi - di disporre l'imputazione coatta, imponendo,  di  fatto,
il processo. 
    A tal punto, gli scenari che si prospettano  sono  essenzialmente
due, ed entrambi forieri di violazioni costituzionali. 
    Presumibilmente (e  nella  migliore  delle  ipotesi),  l'imputato
sara'  destinatario  di  una   pronuncia   di   proscioglimento   per
particolare tenuita' del fatto  nelle  successive  fasi  processuali:
risultano evidenti le frizioni con le rationes  di  deflazione  e  di
ragionevole durata del processo, essendosi ottenuto un risultato gia'
ottenibile senza il conseguente dispendio di energie processuali. 
    Nella  peggiore  delle  ipotesi,  il  preliminare   giudizio   di
particolare tenuita' del fatto svolto dal  giudice  per  le  indagini
preliminari non  si  inverera'  nelle  successive  fasi  processuali,
esponendo  l'imputato  all'applicazione  di  una   sanzione   penale,
nonostante un vaglio giurisdizionale di segno contrario  -  peraltro,
effettuato da  un  giudice  che,  per  connotazione  processuale,  ha
cognizione piena e  originaria  di  tutti  gli  atti  -  con  patente
violazione  dei  principi  costituzionali  di   matrice   sostanziale
dell'istituto gia' prima esposti. 
    Ne'  appare  una  valida  obiezione  sostenere  che  tali  rischi
svanirebbero se il giudice per le  indagini  preliminari  restituisse
gli  atti  al  pubblico  ministero,  «invitandolo»  a  reiterare   la
richiesta di archiviazione nelle forme di  cui  all'art.  411,  comma
1-bis del codice di procedura penale. 
    In primo luogo, come gia' si  e'  avuto  modo  di  accennare  nel
paragrafo 2.4. della presente ordinanza, dedicato ad  evidenziare  la
rilevanza  della  questione  di   legittimita'   costituzionale   qui
sollevata, tale soluzione risulterebbe del tutto  praeter  legem,  in
quanto  il  disposto  codicistico  non  prevede  tale   possibilita',
contemplata, invece, soltanto nel caso  in  cui  il  giudice  per  le
indagini preliminari non condivida la richiesta di  archiviazione  ex
art. 411, comma 1-bis del codice di procedura penale. 
    In secondo luogo, tale soluzione in via di prassi,  oltre  a  non
essere prevista dalla norma ne'  sostenuta  dalla  giurisprudenza  di
legittimita', non salverebbe il combinato disposto qui censurato  dai
dubbi di costituzionalita', atteso che, a maggior  ragione  nei  casi
quali quello di specie, in cui  l'indagato,  al  pari  della  persona
offesa, ha gia' manifestato la sua non opposizione alla pronuncia  di
un'ordinanza di archiviazione ex art. 131-bis del codice  penale,  si
sostanzierebbe in una irragionevole protrazione  del  procedimento  a
carico dell'indagato, con violazione del principio costituzionale  di
cui all'art. 111 del codice di procedura penale. 
    Peraltro, l'applicazione dell'istituto sarebbe nuovamente rimessa
alla discrezionalita' del pubblico ministero, il quale  ben  potrebbe
soprassedere all'invito interlocutorio da parte del  giudice  per  le
indagini preliminari, reiterando la richiesta  di  archiviazione  per
infondatezza della notizia di reato. 
    Ne' tale  soluzione  potrebbe  dirsi  funzionale  a  tutelare  le
esigenze del contraddittorio in favore della persona offesa, che  nel
presente procedimento e' stato comunque espletato  -  analogamente  a
quanto accade con riferimento ai diversi «moduli  procedimentali»  di
applicazione dell'art. 131-bis del codice  penale  prima  menzionati,
nei  quali  giammai  la  persona  offesa  ha  un   potere   di   veto
all'emissione di una pronuncia per particolare tenuita' del  fatto  -
ne' in questa sede la  difesa  della  persona  offesa  (che  peraltro
nessun atto di opposizione ha presentato nel  presente  procedimento)
ha chiesto alcun termine a difesa per la prospettazione di  eventuali
profili di  dissenso,  dichiarando  di  non  opporsi  alla  pronuncia
dell'ordinanza di archiviazione per particolare tenuita' del fatto. 
    Infine, non puo' sottacersi che un eventuale  accoglimento  della
questione di legittimita' qui presentata, oltre a porre rimedio  alle
violazioni dei principi costituzionali menzionate, costituirebbe,  in
una prospettiva di  analisi  economica  del  diritto,  una  proattiva
innovazione  giuridica  che,  ben  lungi   dall'infirmare   l'assetto
procedimentale  delineato  dal  legislatore  per   l'istituto   della
particolare tenuita' del fatto,  vi  si  innesterebbe  armonicamente,
potenziandone l'applicazione. 
    Ed   infatti,   la   normativa   di   risulta   nell'applicazione
dell'istituto della particolare tenuita' del fatto nella  fase  delle
indagini   preliminari   verrebbe   a   comporsi   di   due   «binari
procedimentali», perfettamente sinergici. 
    Laddove   il   pubblico   ministero   decidesse   di   richiedere
l'archiviazione per particolare tenuita' del fatto ai sensi dell'art.
411, comma 1-bis del  codice  di  procedura  penale,  instaurando  il
contraddittorio preventivo e cartolare previsto  dalla  norma,  nulla
vieterebbe al giudice per le indagini preliminari  che  condivida  la
richiesta, in assenza di opposizione delle parti ovvero  in  presenza
di opposizione inammissibile, di provvedere con decreto  motivato  di
archiviazione, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti  previsti  dal
legislatore  in  caso  di  opposizione  ammissibile  o   di   mancata
condivisione della richiesta di archiviazione da  parte  del  giudice
per le indagini preliminari. 
    Laddove il pubblico ministero decidesse,  invece,  di  richiedere
l'archiviazione   per   infondatezza   della   notizia   di    reato,
l'accoglimento della questione di legittimita' qui sollevata in nulla
inciderebbe sul meccanismo procedurale appena descritto,  consentendo
- in via  ulteriore  e  aggiuntiva  -  al  giudice  per  le  indagini
preliminari, previo apposito contraddittorio sul punto, di provvedere
con   ordinanza   di   archiviazione   per   particolare    tenuita',
provvedimento, questo, a suo giudizio  maggiormente  confacente  alla
qualificazione giuridica del fatto e della notitia  criminis  portati
alla sua attenzione. 
    Tutto cio' premesso,